Produrre agrobirra, una scelta alternativa

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Negli ultimi anni alcune aziende agricole si sono trasformate in birrifici, producendo bevande molto migliori di quelle industriali, e apprezzate dai consumatori. Ma buttarsi in questo business implica non solo vantaggi, ma anche difficoltà.

La birra è sempre stata una bevanda molto legata all’agricoltura, perchè prodotta con quattro ingredienti tipici del mondo contadino: orzo, luppolo, lievito e acqua. Ma negli ultimi anni si è sviluppata una variante molto meno legata all’industria e dal sapore più genuino, subito battezzata col suggestivo appellativo di ‘agrobirra‘. Con questo nome si indicano i prodotti artigianali creati nelle aziende agricole, e dunque molto lontani da ciò che esce dalle industrie.

Il fenomeno degli agricoltori che si trasformano in mastri birrai ha avuto un exploit negli ultimi anni non solo grazie alla moda dei prodotti biologici, ma anche perchè la tassazione su base catastale agevola chi vuole buttarsi in questa avventura, affrontando comunque molte difficoltà, ma producendo una bevanda che deve il suo successo a un gusto genuino molto apprezzato dai consumatori italiani. Produrre birra è una scelta che può sembrare conveniente a un agricoltore: sfruttare l’orzo della rotazione colturale invece che destinarlo alla zootecnia è un’opzione in grado di innalzare gli introiti della propria azienda agricola, anche perchè si entra in un mercato in cui ci si può distinguere.

L’orzo da malto ha il vantaggio di non richiedere fertilizzanti, dato che il tenore proteico deve essere inferiore al 10% per non avere problemi durante la successiva fase di produzione del mosto. Con circa sei ettari coltivati ad orzo di varietà Scarlet (una delle favorite per le sue qualità maltarie), contando su una resa di 50 q/ha per la semina primaverile, un’azienda agricola può arrivare a produrre 300 quintali annui, ma gli scarti sono molto elevati. Per produrre cento litri di birra occorrono infatti 15-20 chili di malto, e per ottenere un quintale di malto servono almeno 140-150 chili di orzo. Ne deriva che da sei ettari di orzo verranno fuori circa centomila litri di birra, che vanno poi venduti considerando la possibilità non remota di fare un buco nell’acqua. Infatti, nel caso si riesca a produrre una birra di alta qualità – un risultato già difficile – essa va poi piazzata sul mercato tramite mirate azioni di marketing che colpiscano il cuore del consumatore, puntando ovviamente all’artigianalità e al legame col territorio e magari rivolgendosi solo a enoteche, ristoranti e locali ricercati.

Le agrobirre vengono ottenute trasformando gli zuccheri contenuti nel mosto tramite lieviti ad alta fermentazione (i Saccaromyces) in coltura viva. Dopo la prima fermentazione nelle vasche ne avviene una seconda in bottiglia, con stoccaggio a temperatura controllata. Ciò significa che dalla bollitura dell’acqua e del malto alla bottiglia pronta per essere venduta passano circa ottanta giorni, ma questo processo di rifermentazione allunga la durata della birra senza bisogno di pastorizzarla, ottenendo dunque un sapore molto più gustoso rispetto alle birre industriali.

I birrifici artigianali hanno però un grosso problema, ovvero l’impossibilità di produrre il malto autonomamente. La maltazione è infatti una procedura molto complessa, monopolizzata dalle industrie maltarie italiane che lavorano con quantità e qualità più adatte alle grandi industrie della birra che alle piccole produzioni artigianali. Tuttavia, per godere dell’agevolato regime fiscale agricolo di cui si è già accennato (e che viene spiegato in fondo all’articolo), la maltazione deve avvenire in azienda o in una struttura associativa di cui si è soci. Vista l’impossibilità della prima scelta, è necessario adottare la seconda. Proprio per questo, nelle Marche la Copagri ha dato vita al Consorzio marchigiano produttori dell’orzo e della birra, che prende l’orzo di tutte le aziende agricole associate e lo trasforma in malto: il processo prevede dapprima la pulizia e la calibratura del cereale, e poi la maltatura, ovvero l’immersione in acqua e l’ossigenazione con l’immissione forzata di aria per un certo periodo di tempo. Tale operazione fa germinare l’orzo, trasformando l’amido presente nella cariosside in zuccheri. Terminata la germinazione, le cariossidi vengono essiccate, ripulite del germoglio (‘sbarbate’), insaccate e rivendute come malto alle aziende agricole associate.

Il Consorzio marchigiano permette ai birrifici artigianali di ottenere prodotti dalle caratteristiche tipiche e guadagnare così le agevolazioni governative. La cooperativa associa attualmente due aziende agricole emiliano-romagnole, due venete, una piemontese, una abruzzese e sei marchigiane (più altre tre che stanno già costruendo i propri impianti e che presto entreranno nel gruppo). Il problema principale di questa cooperativa è la scarsa capacità produttiva, dovuta a limiti economici che hanno permesso di attrezzarsi solo con piccoli impianti, in grado di produrre non più di 1500 quintali di malto all’anno. Visto il successo dell’iniziativa, tuttavia, per soddisfare le numerose richieste di nuovi associati è già in programma la costruzione di un altro maltificio più grande, in modo da arrivare a 20 mila quintali all’anno. L’agrobirra, infatti, si sta dimostrando un prodotto molto apprezzato dai consumatori, stanchi delle bevande industriali e desiderosi di gustare delle birre genuine e locali. Il vantaggio è tutto per le aziende agricole, che hanno trovato una forma di business aiutata anche dalle agevolazioni previste dalla legge italiana accennate poco fa. Questi sono i punti essenziali che Copagri Marche indica per diventare produttori di agrobirra:

– Produrre direttamente orzo o altri cereali da cui ottenere il malto per almeno il 60% del fabbisogno. La maltazione deve avvenire direttamente in azienda o presso una cooperativa di cui si è soci.

– Svolgere attività connessa di cui all’articolo 2135 del codice civile.

– Presentare, ai sensi dell’articolo 6 del regolamento Ce 852/2004 (pacchetto igiene), la richiesta di registrazione all’autorità sanitaria competente, riferendosi alle leggi della propria regione.

– Comunicare al Comune i luoghi in cui viene effettuata la vendita diretta, che può iniziare trenta giorni dopo l’avvenuta notifica. La regola, contenuta nell’articolo 4 del decreto legislativo 228/01 e nell’articolo 10 della legge 96/06, vale per tutti i prodotti agricoli oggetto di vendita diretta.

– Stilare un manuale delle procedure per l’applicazione dei principi Haccp e per la gestione del piano di autocontrollo (vedi articolo 5 del regolamento Ce 852/2004 e decreto legislativo 155/97), e comunicarlo alla asl competente nel proprio territorio.

– Nel caso di società o di ricorso a lavori dipendenti, rispettare le prescrizioni del decreto legge 81/2008.

– Riguardo all’Iva, vige il regime agricolo a tutti gli effetti, in base all’articolo 34 del decreto del presidente della Repubblica 633/72, che permette di scegliere tra regime speciale o normale. Nella fase di investimento, è più conveniente optare per il regime normale al fine di recuperare l’Iva, mentre dopo tre anni si può produrre in regime speciale. L’aliquota Iva per la cessione della birra ammonta al 10%, in base al numero 82 della terza parte della tabella A allegata al dpr 633/72.

– Per quanto riguarda l’Irpef, la produzione di birra rientra nel reddito agrario del fondo, ai sensi del decreto ministeriale del 5 agosto 2010.

– Sull’investimento che occorre per realizzare un impianto come previsto dall’asse 3 del Psr ("Diversificazione"), si possono ottenere contributi fino al 50% in regime de minimis (con un massimo di 200 mila euro).

– Le trebbie vanno destinate al mangime per gli allevamenti.

Agrinotizie


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